venerdì 10 gennaio 2014

Come raccontare il terrorismo sul grande(e piccolo)schermo

Come sono stati rappresentati il terrorismo, la lotta armata e la violenza politica al cinema? Come i cineasti hanno trasformato memorie divise in narrazioni visive? Quanti sono i film che si possono analizzare per rispondere a tali quesiti? A partire da queste domande nasce il volume a cura di Luca Peretti e Vanessa Roghi Immagini di piombo. Cinema, storia e terrorismi in Europa, Postmedia books, in questi giorni in libreria. In apertura del volume abbiamo scelto di inserire il saggio di Pierre Sorlin che qui presentiamo e che traccia una breve storia del rapporto tra cinema e terrorismi di vario genere, includendo anche titoli atipici e che propongono un altro tipo di sguardo rispetto agli studi classici sull’argomento. Una riflessione sul metodo, che entra nel merito della possibilità di narrare la lotta armata attraverso il grande (e piccolo?) schermo.

di Pierre Sorlin

L’immagine in movimento nacque durante l’ultima fase degli attentati anarchici contro capi di stato e politici che, dopo aver agitato la fine dell’Ottocento in Europa e in America, si concluse con la morte di Umberto I. L’Europa entrava in un periodo d’instabilità diplomatica, segnata dalle Guerre balcaniche, dalla Guerra italo-turca, dalle crisi a ripetizione che sarebbero approdate al primo conflitto mondiale. In questo contesto l’opinione pubblica si preoccupava certamente più dello scacchiere internazionale che del terrorismo. I venti anni che separarono le due guerre furono fertili di attentati – 120 nella sola Repubblica di Weimar – ma le difficoltà economiche, insieme alla politica aggressiva della Germania e del Giappone, eclissarono gli altri problemi. Durante il secondo conflitto mondiale bombe, deragliamenti, assassinii di soldati e di collaboratori da parte dei partigiani furono vissuti come un aspetto della lotta contro il totalitarismo.



Il cinema e il terrorismo nel dopoguerra. Se si mettono da parte i film che, indirettamente, alludono all’azione dell’IRA, l’Irish Republican Army irlandese, come Il traditore (The Informer, John Ford, usA 1935), Fuggiasco (Odd Man Out, Carol Reed, Gran Bretagna 1947), il terrorismo fu assente dal cinema fino agli anni Sessanta. Nel 1963 Il terrorista di Gianfranco de Bosio destò scalpore perché, non accontentandosi di rappresentare una clamorosa operazione partigiana, soggetto prediletto dei film sulla resistenza, interrogava apertamente la giustificazione e le conseguenze del terrorismo ma, all’epoca, gli attentati sembravano un problema del passato, non una preoccupazione per un mondo occidentale in pieno sviluppo economico. In piena prosperità farsi vagamente paura era un piacere: orrore e catastrofismo trionfarono negli anni Sessanta e Settanta e dai cataclismi naturali (Lo squalo, La torre infernale) si passò a numerosi drammi causati da diverse tipologie di “cattivi”.Prima che attentati spettacolari come quello di Oklahoma City sconvolgessero gli Stati Uniti, il terrorismo era diventato un tema ricorrente, sfruttato da tutti gli studi cinematografici in America, poi in Europa: soltanto in Spagna più di quaranta film sono stati dedicati alle attivitàsovversive dell’ETA basca in tre decenni. Rappresentare fatti eversivi sembra attuale e adatto alle preoccupazioni del pubblico, soprattutto dopo l’11 settembre. Al medesimo tempo, consente di girare scene sbalorditive con inseguimenti, sparatorie, esplosioni. Una tale valanga di bombe e di morti serve per riflettere sul fenomeno terrorista, le sue radici, le ondate di violenza che turbarono l’Europa negli anni Settanta, le nuove forme di violenza apparse alla fine del Novecento? O si tratta di uno specchietto per le allodole come, anteriormente, la moda del catastrofico?

Terrorizzare: creare un sentimento di forte sgomento e d’impotenza di fronte a un pericolo tanto più spaventoso quanto indefinito. Le grandi stragi, come l’11 settembre, enfatizzate dai mezzi di comunicazione, circondate da un rituale politico-religioso, occultano il carattere ordinario, quasi quotidiano, del terrorismo. Siete su una strada strettissima, a forte pendenza, con una serie di tornanti, e guidate prudentemente a quaranta all’ora. Bruscamente un’altra macchina si trova dietro la vostra, l’autista sembra sempre più nervoso, lampeggia, suona il clacson, il paraurti è quasi contro il vostro, vuole costringervi a correre più rapidamente. Siete infastidito, poi impaurito, non volete accelerare ma l’inseguitore rischia di farvi slittare nella forra. L’episodio è banale, fatti del genere succedono continuamente e svelano l’essenza del terrorismo: in presenza di un ostacolo, di un disagio, di un’opposizione, si usa la violenza per rimuovere la difficoltà. Duel, film americano diretto da Steven Spielberg nel 1971, traduce il carattere agghiacciante, anonimo e arbitrario del terrorismo ordinario: un viaggiatore, al volante della sua macchina, è bloccato sulla strada da un’autocisterna che non cede il passo; dopo una fermata, si trova inseguito dall’autocisterna che non lo lascia; non riesce a vedere l’autista, non saprà mai né chi era, né perché l’aveva tallonato.
Chiamiamo terrorista la persona che ci sottopone a violenza fisica o morale, ma l’autista che ci sta addosso non si ritiene minaccioso, pensa di essere dalla parte della ragione – la sua ragione. I terroristi sono sempre convinti di agire a buon diritto. La pretesa, usuale, è particolarmente urtante nel caso del terrorismo di stato che si ammanta di legalità. Quando, nella primavera del 1937, in una rappresaglia dopo un attentato, il generale Rodolfo Graziani, secondo le sue precise parole, fece giustiziare a Debra Libanos (Etiopia) duemila persone, tra cui trecento monaci, e bruciare la chiesa di San Giorgio, affermò che aveva operato “nell’interesse dell’ordine pubblico” – in realtà lo fece perché non veniva a capo di una resistenza che l’esasperava. Per gli italiani, gli etiopici erano terroristi e viceversa. Ho preso l’esempio dell’Italia ma tutti i paesi coloniali (Francia, Giappone, Gran Bretagna, Olanda, Portogallo, Russia, Spagna, Stati Uniti) sono stati ugualmente terroristi. Il cinema l’ha mostrato da molto tempo.

La battaglia di Algeri (Gillo Pontecorvo, Italia-Algeria 1966) si riferiva all’uso della tortura da parte dell’esercito francese ma lo faceva a posteriori, quando l’Algeria aveva conquistato l’indipendenza. Invece Stato d’assedio (Etat de siège, Costa Gavras, Francia 1972) denunciava i metodi illegali usati, in America Latina, da governi reazionari, con l’aiuto attivo degli statunitensi. Il protagonista era direttamente ispirato a un agente americano, Dan Anthony Mutrione, specialista della tortura, organizzatore di “squadroni della morte”, ucciso dai Tupamaros uruguaiani. Per evitare l’effetto suspense, il film cominciava con il seppellimento dell’agente, poi descriveva il suo ruolo nell’addestramento della polizia locale e nella liquidazione delle forze popolari, mostrando come, sottomano, intimidazione, sevizie e omicidio sovvertivano la legalità. Terrorismo e contro-terrorismo si rispondono e usano procedimenti paragonabili, ognuno con la certezza che la sua causa, essendo legittima, giustifica l’uso di mezzi illeciti. Per gli attentatori dell’11 settembre, i terroristi erano gli americani che accaparravano gran parte delle ricchezze mondiali, facevano i carabinieri universali a scapito dell’indipendenza dei popoli e, nella prima guerra in Iraq (1991), avevano combattuto l’Islam. Un cuore forte (A Mighty Heart, Michael Winterbottom, USA 2007) mette in luce questa logica implacabile. Nel 2002, un giornalista del Wall Street Journal, catturato da ribelli pakistani, fu detenuto parecchie settimane e infine ucciso. L’uomo non si occupava di politica, faceva un’inchiesta sull’Islam in Pakistan, ma era americano, dunque colpevole. Il terrorismo è una forma di paranoia. Chiuso in se stesso, il terrorista sogna l’eliminazione totale di tutto ciò che gli dà fastidio. L’autista che vi insegue vorrebbe che la strada fosse totalmente libera, pienamente sua, non pensa a voi, desidera far sparire l’ostacolo in qualsiasi modo. L’attentatore ignora l’altro, che sia individuo o società, e questo è, al medesimo tempo, la sua forza e la sua debolezza. La forza, poiché non esita mai dato che non può, neanche per un attimo, mettersi al posto della vittima, e la debolezza, poiché non misura né l’energia, né la capacità di resistenza dell’altro. Incapace di rappresentarsi l’avversario, colpisce ripetutamente, senza chiedersi se può ottenere un risultato. Il terrorismo, fautore di danni drammatici, è raramente efficace.

L’impossibile racconto. I terroristi, qualunque sia il loro obiettivo, creano un profondo panico. Negli anni di piombo le possibilità, per un italiano, di morire a causa di una sciagura stradale o di un incidente domestico erano ottanta volte più forti del rischio di perire in un attentato, ma erano le bombe che facevano paura, non le macchine o gli scalei. Lo shock che seguì l’11 settembre fu talmente forte che il Congresso votò frettolosamente e senza delibera il Patriot Act che rinforzava i poteri civili e militari del presidente a scapito delle libertà individuali e dell’informazione. Quattro anni dopo, alla vigilia dell’elezione presidenziale, quando nessun atto sovversivo si era prodotto in America, si formò un gruppo di “mamme di sicurezza” (security mums) che promettevano il loro voto al candidato più impegnato nella difesa dei bambini contro il terrorismo. Tale paura, prolungata nell’arco di parecchi anni, è irrazionale ma i fenomeni di spavento collettivo sono frequenti. Periodicamente insorgono nuovi motivi di terrore: nell’ultimo mezzo secolo il mondo ha conosciuto il rischio atomico, la guerra fredda, l’Aids, le api micidiali del Messico, il virus Ebola, la febbre aviaria, la rivoluzione climatica, il virus suino e, in più, ogni paese ha avuto i propri motivi per non sentirsi al sicuro, come terremoti, incendi forestali dell’estate, allagamenti, tutti pericoli misteriosi, sovrastanti, contro cui non si può lottare, che destano scalpore per un certo tempo, poi vengono dimenticati. (…) Un certo terrorismo interviene nell’istante, in mancanza di una riflessione sui mezzi da utilizzare e le tappe da percorrere per raggiungere un obiettivo di lungo periodo. Per questo, provoca una paura improvvisa e difficilmente superabile che possiamo comprendere tenendo conto della costruzione e della circolazione delle notizie in una società. Quando comunichiamo un fatto privato (la cugina che si è rotta una gamba) o pubblico (le decisioni prese alla conferenza sul clima) usiamo, nella maggioranza dei casi, racconti, brevi o lunghi. Prima di arrivare all’evento finale, del quale vogliamo dare conoscenza, ne esponiamo l’origine e aggiungiamo dettagli intermedi che riteniamo importanti. Due condizioni sono necessarie per rendere la narrazione intelligibile: che i termini siano chiaramente identificati (Quale cugina? Quale conferenza?) e che la concatenazione degli episodi riferiti sia logica.

Precisamente tali requisiti difettano nel caso degli attentati. In innumerevoli occasioni durante gli anni di piombo, le reti televisive mostrarono la carcassa di una macchina carbonizzata o le rovine di un edificio con un laconico commento: “È avvenuto alle 2 di notte”. Manca, nel caso delle aggressioni terroristiche non mirate a un obiettivo dichiarato, la materia indispensabile per costruire un racconto: i mass media, ignorando chi ha operato, per quali motivazioni, in quale maniera, sono ridotti a ripetere indefinitamente la cronologia dell’accaduto, che non spiega niente, e a diffondere gli scarsi dettagli relativi agli attentatori.

Agli occhi degli statunitensi, gli attacchi dell’11 settembre non potevano essere un termine in sé, dovevano precedere una proclamazione, un progetto, una minaccia, qualcuno doveva presentarsi come il fautore della strage, altrimenti, al di fuori del dolore delle famiglie, l’operazione non aveva senso, non c’era nessuna possibilità di caratterizzarla. Gli esecutori, individui qualsiasi, sconosciuti, senza rilievo, avevano agito per conto loro? e perché? o erano sotto gli ordini di un altro personaggio? chi (ricordiamo che la responsabilità di Bin Laden non è mai stata dimostrata; lui stesso aspettò due mesi prima di rivendicarla)? qual era il punto di partenza? e quale la finalità? Il cinema testimonia la differenza tra un terrorismo politicamente orientato e un terrorismo “alla cieca”. Un numero rilevante di film dedicati all’IRA o l’ETA descrivono dall’interno il mondo degli attentatori, lo scontro tra terroristi e contro-terroristi, il dolore e le sofferenze delle vittime, l’incatenamento infinito degli atti che provocano una risposta, senza che si possa dire chi ha cominciato. Il cinema spagnolo ha utilizzato la fiction per porre, attraverso il caso dell’ETA, la questione della violenza come arma politica. Lo iato tra il fine e i mezzi appare chiaramente in La spiaggia dei levrieri (La playa de los galgos, Mario Camus, 2001). Un etarra, Pablo, sconvolto dopo aver ucciso un ingegnere (allusione a un crimine dell’ETA contro l’impianto di una centrale nucleare nel Paese Basco), decide di rinunciare alla violenza ma sbatte contro tre realtà: il rancore dei suoi compagni, il rifiuto della fidanzata, anche lei etarra e risoluta a continuare la lotta armata, la vendetta della vedova che lo perseguita e lo uccide. Il rifiuto, comprensibile, di una “colonizzazione” economica del Paese basco induce un assassinio arbitrario, senza relazione con il progetto industriale e trascina Pablo in un circolo dal quale non può uscire. Il film aiuta a capire le motivazioni dei nazionalisti e la logica aberrante che si sviluppa all’interno di un gruppo clandestino, isolato dalla popolazione e chiuso in se stesso. Col passare del tempo, evocare il terrorismo spietato dei vari campi nelle lotte che accompagnarono l’indipendenza dell’Irlanda è meno arduo: Michael Collins (Neil Jordan, Gran Bretagna 1997), biografia romanzata di un leader dell’IRA, mostra tanto gli irlandesi che assassinano a sangue freddo gli agenti britannici, quanto i carri armati inglesi che massacrano la folla pacifica in uno stadio, Il vento che accarezza l’erba (The Wind That Shakes the Barley, Ken Loach, Gran Bretagna 2006) ricorda come, dopo aver subito insieme la repressione e le torture dei britannici, gli irlandesi si divisero e rivolsero la violenza contro loro stessi. L’eversione riferita in questi film è semplicemente un elemento della storia, nascosto a lungo, progressivamente sottratto all’oblio.
A differenza del terrorismo finalizzato a un obiettivo, il terrorismo cieco non è narrabile, si riduce alla preparazione ossessiva dell’atto più sanguinario possibile. Il carattere ermetico delle cellule terroriste è talmente forte che Un cuore forte non racconta direttamente il rapimento e l’uccisione del giornalista americano, l’unica soluzione è seguire la moglie alla ricerca del marito. I due film americani che parlano dell’11 settembre, ambedue usciti nel 2006, World Trade Center di Oliver Stone e United 93 di Paul Greengrass, nell’incapacità di coglierne il carattere politico, si sono concentrati sul comportamento di alcuni individui, riportando vicende raccontabili, con un inizio, alcune peripezie e una conclusione. I due protagonisti di World Trade Center, seppelliti sotto le macerie, confusi, ignari di quello che è successo, feriti ma vivi, lottano valorosamente per più di due ore per sopravvivere. Non comprendono niente, non più delle loro famiglie inchiodate davanti al televisore. Il film opera una curiosa traslazione, incapace di rendere conto dell’evento punta da una parte sull’effetto di paura e claustrofobia, dall’altra sull’eroismo dei personaggi che non si abbandonano alla disperazione. Lo United 93 era il quarto volo in partenza da Boston che fu dirottato, probabilmente per colpire un monumento pubblico (la Casa Bianca?), ma dopo uno strano percorso si schiantò in Pennsylvania. Le chiamate telefoniche di certi passeggeri fanno pensare che ci fu una ribellione contro i dirottatori che non riuscirono a portare a termine la loro missione. Su una trama di questo genere un buon sceneggiatore era in grado d’inventare cento episodi nei quali si manifestava il coraggio di cittadini disposti a morire per far fallire l’attentato.

Quattro giorni dopo l’attacco il New York Times cominciò la pubblicazione di una rubrica che durò fino a dicembre, Una nazione sfidata (A Challenged Nation). Il titolo sembrava promettere considerazioni sull’ostilità nei confronti degli Stati Uniti, sulle sue origini e sulle soluzioni per combatterla ma, in pratica, fu soltanto una serie di “ritratti di lutto” (portraits of grief), brevi biografie di tutte le vittime. Il ricordo di persone simpatiche, dedicate alla famiglia, agli amici e al lavoro, evitava di andare al cuore della tragedia. Sei anni dopo, mentre il paese era impegnato in due guerre (Afghanistan e Iraq) che necessitavano una riflessione sull’uso della forza militare contro il terrorismo, i film menzionati sopra continuavano a privilegiare storie individuali, conseguenze di un medesimo fatto originale – gli attentati – che non veniva discusso.

Non narrabile non vuol dire inspiegabile. Molte motivazioni psicologiche, sociali, mentali possono condurre certi soggetti a negare, attraverso il loro annientamento, ostacoli che non riescono a superare. L’autodistruzione dei kamikaze, pur irrazionale che sia (non sapranno mai se quello a cui miravano è stato distrutto) lo dimostra: l’odio nei confronti di una resistenza insuperabile s’incrosta nella persona a un punto tale che questa deve morire per annientare l’ostacolo.

Analizzare il processo mentale che porta un individuo o un gruppo a compiere azioni micidiali, suicide, poco efficaci, contro sconosciuti, è realizzabile, ma richiede una grande precisione nell’analisi, un’attenzione alle più piccole sfumature. Il cinema, arte della rappresentazione, non riesce a suggerire il flusso di una coscienza, mostra gli aspetti esterni, la rabbia di un ragazzo la cui famiglia è stata massacrata da militari stranieri, l’adesione a una banda sovversiva, l’addestramento alle armi – ma non l’andamento interno che porta dal lutto a un uso cieco della violenza. In Germania, in Italia, nonostante la distanza rispetto agli anni di piombo, i film si occupano del dopo, della difficoltà di giustificare o scordare, non delle origini del terrorismo. In Gli anni di piombo (Die bleierne Zeit, Margareth von Trotta, Germania 1981), Viene il giorno (Es kommt der Tag, Susanne Schneider, Germania 2009) o La seconda volta (Mimmo Calopresti, 1995), un’ex terrorista (il fatto che sia una donna mette del pepe nella vicenda) vorrebbe voltare pagina ma viene raggiunta dal passato. La trama verte sul rapporto tra due sorelle che si sono schierate l’una pro, l’altra contro l’azione illegale: sul conflitto dimenticanza/ricordo da parte della brigatista tedesca che, per fuggire, ha abbandonato la figlia; sul confronto con la vittima per l’italiana, vale a dire su questioni personali, non sull’impegno negli attentati.
Questo non significa che il cinema misconosca o sottovaluti il terrorismo, bensì che bisogna chiedersi quando e come si può parlarne. In meno di un decennio, prima che gli attentatori si scatenassero in Europa, tre film, Duel, Il terrorista, Stato d’assedio, avevano offerto una riflessione sul fenomeno sovversivo che, allora, non sembrava minaccioso. Duel aveva attirato l’attenzione sulla presenza quotidiana di una violenza distruttiva determinata dall’incontro con un ostacolo. Il terrorista aveva evidenziato gli effetti limitati e i danni notevoli conseguenti agli attentati: a Venezia, nel 1944, i tedeschi vanno fieri di aver stabilito una “fiduciosa comprensione” con una popolazione rassegnata ad aspettare l’arrivo degli alleati. Per scuotere una passività che sfiora la complicità, un uomo organizza un attentato, sapendo che i tedeschi fucileranno ostaggi, provocando, forse, un sussulto dei veneziani. Senza giudicare, il film fa risaltare le condizioni dell’azione terrorista e le conseguenze che provoca. Infine, Stato d’assedio aveva mostrato come il terrorismo generi un temibile contro-terrorismo. Le tre dimostrazioni erano chiare ma relativamente astratte, riguardavano un paese indeterminato per la prima e la terza, un’epoca già lontana per la seconda. In novanta o centoventi minuti, un film è capace di trattare un caso teorico e di far ragionare sugli atti mirati a rovinare uno stato di cose che dà fastidio, disturba, o diviene intollerabile. Il pericolo eversivo e gli atti terroristi, là dove intervengono, non sono contingenti, spaventano, fanno soffrire, destano reazioni istintive senza paragone con il rischio che rappresentano e non lasciano spazio al distacco: i film citati sopra non “parlano” a chi si trova preso nella bufera. Le manifestazioni del terrorismo sono dappertutto le stesse: attentati, mitragliamento, sequestri si somigliano. Al contrario, la formazione di un nucleo terroristico dipende da fattori che cambiano a secondo dell’epoca, del luogo, dell’ambiente storico, delle condizioni economiche, delle tradizioni culturali, ogni evento è particolare, comprenderlo presuppone una lunga inchiesta sul contesto nel quale è apparso. Il film non è appropriato a questo tipo d’indagine. Nei tre film che inscenano un’ex terrorista costretta a tornare sul proprio passato, lunghi dialoghi, a volte tediosi, tentano di spiegare itinerari personali. Le protagoniste si limitano a evocare il proprio stato d’animo, non sono consapevoli del fatto che il loro impegno fu generazionale tanto quanto individuale, inseparabile dal contesto politico nel quale era nato. La rabbia di uno o di dieci uomini, per violenta che fosse, non sarebbe mai stata sufficiente a condurre in porto gli attentati di New York, l’atto rivelò l’odio di una costellazione di esseri umani che, senza partecipare all’azione, la sostennero implicitamente: i film mostrano tale o tal’altro individuo, non sintetizzano un insieme di pensieri e di collere convergenti. Invece, al di là di casi specifici, permettono di ragionare sulle varie forme di terrorismo che intervengono nella quotidianità – e questo non è trascurabile.

Fonte: www.minimamoralia.it
9.01.2014
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&t=66794#top 

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